Che fine hanno fatto gli orfanotrofi in Italia?


Li chiamano «minori fuori famiglia», e a questo si aggiungono le centinaia di neonati abbandonati ogni anno alla nascita. E il colpo d’occhio fa spavento; come due mondi che si cercano ma non si incontrano mai. O quasi.

Casermoni anonimi con grandi stanze con i letti e castello e le camerate comuni: quelli che una volta si chiamavano orfanotrofi sono stati chiusi a fine 2006, in base alla legge 149 del 2000. Ora si parla di case famiglia, dove una coppia ospita un numero ridotto di minori cercando di riproporre la formula familiare. O di comunità, educative o terapeutiche, gestite da addetti ai lavori. La differenza tra comunità educativa e casa famiglia risiede nei loro stessi principi ispiratori: mentre la prima nasce come servizio, la seconda sorge come voglia di accoglienza. In termini numerici, la comunità educativa può ospitare fino a un massimo di 10 minori, mentre la casa famiglia può accoglierne fino a 6.

I minori, orfani o allontanati dai genitori, parcheggiati nelle case famiglia e nelle comunità di tutta Italia sono circa 30-35mila (anche se dati certi non ne esistono). Solo a novembre 2015, sull’onda dell’interesse mediatico intorno agli affidamenti minorili e dopo la circolare del Csm, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha pubblicato la prima raccolta dati sperimentale, “La Tutela dei minorenni in comunità”. Sono stati chiesti alle 29 procure minorili i dati sul numero di minori collocati in comunità. E «sebbene i dati avuti non arrivino ancora al dettaglio», scrive il garante Vincenzo Spadafora, «ora sappiamo che al 31 dicembre 2014 i minorenni a vario titolo collocati nelle comunità erano 19mila» (al 31 dicembre 2015 i bambini e i ragazzi accolti in comunità erano 21.035, in aumento rispetto all’anno precedente). Ma da questa cifra mancano i dati dei ragazzi collocati nelle famiglie affidatarie, che in base ai report passati erano più o meno lo stesso numero di quelli inseriti nelle comunità.

Le strutture conteggiate sono 3.192, ma senza una differenziazione per tipologia. Non solo: in alcune regioni le autorità amministrative e sanitarie che autorizzano le aperture delle comunità per i minori non ne danno comunicazione alle procure. Quindi i dati risultano incompleti. Servirebbe un database comune, scrive il garante, ma «si prospettano tempi lunghi». Né si sa quanto costino davvero alle casse pubbliche, visto che le rette da pagare variano dai 40 ai 400 euro al giorno. Si parla di una spesa annuale di circa 1 miliardo di euro, ma anche in questo caso, un dato certo non esiste. Ognuno fa a modo suo. I Comuni autorizzano le comunità ad aprire le porte ai bambini solo sulla base di autocertificazioni fornite dalle strutture stesse. Che stabiliscono anche le rette da ricevere, in base agli affitti da pagare e al numero di educatori assunti. Gli accreditamenti ufficiali vengono regolati dalle leggi regionali, e in molti casi arrivano solo in un secondo momento. Ogni Regione stabilisce poi le modalità di controllo. Nella maggior parte dei casi non esistono rendicontazioni dettagliate delle spese sostenute dalle strutture. Non si sa quanta parte della retta serva per il sostegno del minore, e quanta liquidità resti invece nelle tasche della comunità.

La media di permanenza nelle strutture è di circa 3 anni. Gli affidamenti temporanei che dovrebbero durare al massimo 2 anni, spesso vengono rinnovati sine die. Un vero e proprio business nel «settore» che di fatto ostacola le adozioni per la semplice circostanza che ogni adozione è una retta in meno. Risultato: in mezzo a tanti conteggi approssimativi, nessuno sa quanti siano davvero i bambini in mano alle strutture per minori oggi in Italia. Mentre le richieste di adozioni nazionali calano di anno in anno.

di Valentina Adobati