Il diritto del nato da parto anonimo di conoscere le proprie origini: la sentenza n. 1946/2017 SS. UU.


Il giudice non può più negare al figlio il diritto di conoscere le proprie origini. E’ quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 1946 del 25 gennaio 2017.

Il parto anonimo apre un dibattito, più volte posto al vaglio della Corte Costituzionale, sul rapporto tra i diritti delle parti interessate.

Da una parte v’è infatti il diritto potestativo del figlio ad accedere alle informazioni sull’identità e le origini dei propri genitori biologici. Dall’altra invece il diritto all’anonimato e alla riservatezza della donna partoriente, che pone un limite invalicabile al rispettivo diritto del figlio: in presenza della dichiarazione della madre al momento della nascita di non voler essere nominata (ai sensi dell’art. 30, co. 1, D.p.r. 396/2000), l’accesso alle informazioni non può mai essere consentito.

In tale contesto, è intervenuta la pronuncia della Corte Costituzionale, sollecitata dalla Corte Europea, che aveva rilevato come in Italia non fosse previsto un procedimento per richiedere alla madre, su impulso del figlio, se dinanzi a quella richiesta intendesse derogare all’anonimato invocato alla nascita o di mantenerlo. La Corte aveva inoltre ritenuto che la legge italiana fosse troppo orientata verso la tutela della madre a discapito dei diritti del figlio, perché non consente di effettuare un bilanciamento delle diverse esigenze, al fine di garantire ai soggetti coinvolti il pieno rispetto del diritto alla vita privata e familiare assicurato dall’art. 8 della Convenzione europea.

La Corte di Cassazione, su richiesta del Procuratore generale, ha chiesto, ai sensi dell’art. 363 comma 1 c.p.c., l’enunciazione del principio di diritto al quale i giudici della Corte d’Appello di Milano avrebbero dovuto attenersi nel decidere il caso di un figlio, nato da parto anonimo, che aveva chiesto al Tribunale di potere verificare, attraverso un interpello riservato, la persistenza della volontà della madre di non essere nominata.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di sentire, su richiesta del figlio, la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30 D.p.r. n. 396/2000, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione.

Si è riconosciuto così il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini.

Sul punto si sono costituiti due diversi orientamenti:

  • Alcuni tribunali hanno dato immediata attuazione al dictum della Corte, delegando il Giudice relatore a verificare l’attuale volontà della madre biologica dei soggetti ricorrenti.
  • Secondo altri uffici, tra cui quello della Corte di Appello di Milano, con il richiamo al “procedimento stabilito dalla legge”, la Corte Costituzionale avrebbe istituito un’esplicita riserva di legge per non vanificare la garanzia di segretezza riconosciuta alla donna in un parto anonimo. In assenza di intervento del legislatore,l’interpello della madre non può essere operato direttamente dal giudice. Secondo la Corte milanese, la sentenza della Corte Costituzionale non sarebbe stata immediatamente efficace, a causa dell’esplicita riserva di legge in essa contenuta.

La sentenza n. 278 del 2013, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 28 della legge sull’adozione è una pronuncia di accoglimento, pertanto non contiene soltanto l’addizione di un principio, ma anche una regola chiara circa la possibilità d’interpello della madre da parte del giudice su richiesta del figlio. Il mancato intervento del legislatore non può giustificare la violazione di un diritto del figlio, ormai riconosciuto mediante la declaratoria d’incostituzionalità.

Il giudice che nega al figlio l’accesso alle informazioni sulle sue origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, di voler rimanere anonima, senza avere precedentemente verificato, con le modalità più discrete e meno invasive possibili, la volontà della donna di mantenere l’anonimato, continuerebbe a dare applicazione al testo dell’art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983.

Sostanzialmente, la disposizione dell’art. 28 comma 7 non è rimasta identica, perché esiste nell’ordinamento ma con l’aggiunta di questo principio ordinatore, che fissa un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre.

Gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore intervenga, devono applicare direttamente quel principio, cercando di trovare nel sistema le regole più idonee per la decisione dei singoli casi.

Il giudice è chiamato a individuare e dedurre la regola del caso concreto a lui sottoposto, desumendola dai testi normativi e dal sistema, di cui fa parte anche il principio vincolante dichiarato dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva. In difetto di ciò, si determinerebbe un deficit di tutela riguardo a un diritto fondamentale riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, mantenendo una situazione di violazione analoga a quella constatata dalla CEDU.

Infine, le Sezioni Unite hanno ribadito che, qualora risulti accertata la morte della genitrice biologica, sussiste certamente il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, pur se la donna aveva dichiarato la sua volontà di restare nell’anonimato. Con la morte si verifica infatti un affievolimento, se non la scomparsa, delle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre.

di Valentina Adobati