La “BLUE WHALE CHALLENGE”: quando il gioco diventa reato?


La «Blue Whale Challenge è una discussa pratica che sembrerebbe provenire dalla Russia: viene proposta come una sfida, in cui un così detto “curatore” può manipolare la volontà e suggestiona i ragazzi sino ad indurli al suicidio, attraverso una serie di cinquanta azioni pericolose. Ad oggi capita anche che bambini e adolescenti si contagino fra di loro, spingendosi ad aderire alla sfida su gruppi social dopo aver facilmente rintracciato in rete la lista delle prove ed essersi accordati sul carattere segreto di questa adesione. Le prove prevedono un progressivo avvicinamento al suicidio attraverso pratiche di autolesionismo, comportamenti pericolosi e la visione di film dell’orrore e altre presunte “prove di coraggio”, che vengono documentate con gli smartphone e condivise in rete sui social»[1].

Tale pratica, tristemente diffusa tra i minori d’età (che più degli adulti utilizzano le piattaforme sociali), è stata da qualcuno ricondotta alla fattispecie giuridica dell’istigazione o aiuto al suicidio,in quanto l’art. 580 c.p. sanziona «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente[2]. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio».

Sul punto, è intervenuta la Corte di Cassazione, con la sentenza del 22 dicembre 2017, n. 57503, che, pur escludendo in concreto la sussistenza del delitto de quo, ha implicitamente affermato la penale rilevanza della cosiddetta Blue Whale Challenge.

Partendo da un’analisi circa i fatti concreti, «[…] il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del riesame, ha confermato il decreto di sequestro probatorio di un telefono cellullare e di materiale informatico di OMISSIS, indagato per il reato di istigazione al suicidio ed adescamento di minori. La vicenda riguarda i rapporti intrattenuti dall’indagato con una minore nell’ambito della partecipazione di entrambi ad un “gioco” noto con il nome di “Blue Whale Challenge”, nell’esecuzione del quale il soggetto ha inviato alla suddetta minore messaggi telefonici ritenuti integranti i reati in contestazione, tra cui uno in cui le intimava: “manda audio in cui dici ke sei mia schiava e della vita non ti importa niente e me la consegni”».

L’indagato si è opposto all’ordinanza dichiarando, tra gli altri, con il terzo motivo, che c’è stata «errata applicazione della legge penale, rilevandosi in proposito l’inconfigurabilità del reato di cui all’art. 580 c.p., posto che la minore non aveva tentato il suicidio e in ogni caso si era procurata delle lesioni non gravi, peraltro in conseguenza di condotte addebitabili ad altri. Quanto al reato di adescamento di minori, il ricorrente eccepisce l’atipicità del fatto ed inoltre rileva come entrambe le contestazioni concernono fattispecie per cui non è configurabile il tentativo[3], in relazione al quale peraltro la competenza sarebbe del Tribunale di Bologna ai sensi dell’art. 8 c.p.p., comma 4».

La Corte di Cassazione, dopo un’attenta analisi è giunta alla conclusione che «coglie invece nel segno l’obiezione del ricorrente in merito all’inconfigurabilità del delitto di cui all’art. 580 c.p., in riferimento ai fatti descritti dall’ordinanza. La disposizione citata, infatti, punisce l’istigazione al suicidio – e cioè a compiere un fatto che non costituisce reato – a condizione che la stessa venga accolta e il suicidio si verifichi o quantomeno il suicida, fallendo nel suo intento, si procuri una lesione grave o gravissima. L’ambito di tipicità disegnato del legislatore esclude, dunque, non solo la rilevanza penale dell’istigazione in quanto tale – contrariamente a quanto previsto in altre fattispecie, come ad esempio quelle previste dagli artt. 266, 302, 414, 414-bis o 415 c.p. – ma altresì dell’istigazione accolta cui non consegue la realizzazione di alcun tentativo di suicidio ed addirittura di quella seguita dall’esecuzione da parte della vittima del proposito suicida da cui derivino, però, solo delle lesioni lievi o lievissime. La soglia di rilevanza penale individuata dalla legge in corrispondenza della consumazione dell’evento meno grave impone quindi di escludere la punibilità del tentativo, dato che, per l’appunto, non è punibile neppure il più grave fatto dell’istigazione seguita da suicidio mancato da cui deriva una lesione lieve o lievissima».

Conclude, infine, dicendo che «erroneamente dunque il Tribunale ha ritenuto sussistere il fumus del delitto ipotizzato dal pubblico ministero, posto che il fatto, per come descritto nell’ordinanza, non integra la fattispecie contestata non essendosi verificato quantomeno un tentativo di suicidio con causazione di lesioni gravi o gravissime. Ciò peraltro non è sufficiente a determinare l’invocato annullamento del provvedimento impugnato, in quanto correttamente i giudici del riesame hanno ritenuto la condotta attribuita all’indagato astrattamente riconducibile anche alla fattispecie di adescamento di minorenni di cui all’art. 609-undeciesc.p., qualificazione sulla quale le obiezioni avanzate con il ricorso si rivelano invece generiche e meramente assertive».

È d’uopo sottolineare, infatti, che, leggendo attentamente l’art. 580 c.p., risultano manifeste delle “parole – chiave” che confermano e avvalorano la decisione della Corte di Cassazione, quali appunto la necessità che il suicidio avvenga o, quantomeno, che il soggetto si procuri delle lesioni gravissime.

Con ciò, però, non si vuole diminuire la tutela approntata ai minori, poiché, nell’ultimo comma dell’art. 580 c.p., si rimanda all’ipotesi di omicidio, nel caso in cui la vittima sia un soggetto minore di anni quattordici.


[1] Tale è la definizione data dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni, che sta monitorando l’avanzare di un fenomeno così pericoloso. L’obiettivo degli operanti è quello di individuare i soggetti che espongono i bambini e, più in generale, i giovani a un rischio concreto per la loro vita.

[2] Ipotesi descritta nell’art. 570 c.p. – omicidio del consenziente. In particolare, al co. 2, i punti 1) e 2) recitano che: «si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti»

[3] Art. 56 c.p.: «chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà».

di Giulia Rossitto