La sottrazione di minore è un fenomeno disciplinato quale che sia il luogo in cui la vittima, con o senza il suo consenso, viene condotta.
Per quanto riguarda, in primis, la sottrazione e il trattenimento del minore all’estero, tale fattispecie si configura come estremamente complessa ed è stata, pertanto, oggetto di un’attenta analisi, non solo da parte della dottrina e del legislatore, ma anche dalla giurisprudenza.
Con questa espressione, si intende la situazione in cui un minore viene condotto all’estero da chi non esercita la potestà esclusiva, senza alcuna autorizzazione oppure non viene ricondotto in Italia.

L’art. 574-bis c.p. recita che: «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque sottrae un minore al genitore esercente la responsabilità genitoriale o al tutore, conducendolo o trattenendolo all’estero contro la volontà del medesimo genitore o tutore, impedendo in tutto o in parte allo stesso l’esercizio della responsabilità genitoriale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. Se il fatto di cui al primo comma è commesso nei confronti di un minore che abbia compiuto gli anni quattordici e con il suo consenso, si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni. Se i fatti di cui al primo e secondo comma sono commessi da un genitore in danno del figlio minore, la condanna comporta la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale».
Tale fattispecie viene sanzionata aspramente, poiché il soggetto agente decide autonomamente di trasferirsi all’estero con il minore senza il consenso dei genitori; più gravemente è punito il coniuge che commetta il fatto, con l’intenzione di abbandonare il tetto coniugale, non informando l’altro genitore sul luogo di trasferimento, in tale frangente applicandosi anche la pena accessoria innanzi richiamata.
Un istituto simile è quello dell’art. 574[1]c.p., che punisce chi sottrae un minore a coloro che ne hanno la custodia per un periodo rilevante, senza una effettiva giustificazione.
La differenza rispetto al reato precedentemente descritto sta proprio nel luogo in cui il minore viene trasferito, che non comporta uno spostamento oltre i confini territoriali dello Stato italiano.
Fondamentale è l’intenzionalità di compiere una condotta antigiuridica che si concretizza nella sottrazione del minore dall’ambiente di riferimento e nell’esercizio di un controllo per un apprezzabile lasso di tempo.
Si tratta di un reato plurioffensivo, che tutela la responsabilità genitoriale e il diritto del minore a vivere nel proprio ambiente[2].
È d’uopo, infine, sottolineare le differenze che intercorrono rispetto all’art. 573 c.p., in materia di sottrazione consensuale di minorenni.
L’art. 573 afferma che: «chiunque sottrae un minore, che abbia compiuto gli anni quattordici, col consenso di esso, al genitore esercente la responsabilità genitoriale o al tutore, ovvero lo ritiene contro la volontà del medesimo genitore o tutore, è punito, a querela di questo, con la reclusione fino a due anni. La pena è diminuita, se il fatto è commesso per fine di matrimonio; è aumentata, se è commesso per fine di libidine».
La divergenza tra tale fattispecie e quella descritta all’art. 574 c.p. consiste nel fatto che qui il bene giuridico oggetto di tutela è la “responsabilità genitoriale“, offesa da coloro che, servendosi del consenso del minore, impediscono ai genitori di svolgere il loro ruolo.
In conclusione, questa materia è stata correttamente
individuata e disciplinata dal legislatore, al fine di dettare i caratteri di
garanzia volti a preservare l’integrità familiare e la serenità dei
minori.
[1] L’articolo impone che: «chiunque sottrae un minore degli anni quattordici, o un infermo di mente, al genitore esercente la responsabilità genitoriale, al tutore, o al curatore, o a chi ne abbia la vigilanza o la custodia, ovvero lo ritiene contro la volontà dei medesimi, è punito, a querela del genitore esercente la responsabilità genitoriale, del tutore o del curatore, con la reclusione da uno a tre anni. Alla stessa pena soggiace, a querela delle stesse persone, chi sottrae o ritiene un minore che abbia compiuto gli anni quattordici, senza il consenso di esso, per fine diverso da quello di libidine o di matrimonio».
[2] La massima, rinvenibile a partire dalla sentenza della Corte di Cassazione penale del 2003, n. 20950, è infatti la seguente: «l’art. 574 c.p. configura un reato contro la famiglia, plurioffensivo in quanto lede non soltanto il diritto di chi esercita la patria potestà, ma anche quello del figlio a vivere secondo le indicazioni e determinazioni del genitore stesso. Ed infatti il reato si commette anche disponendo del minore in contrasto con l’autorità di chi esercita la potestà di genitore su di lui e con i connessi poteri di custodia e di vigilanza, conducendolo o trattenendolo in luogo non autorizzato, senza il consenso, espresso o tacito, dei genitori».
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di Giulia Rossitto