Hanno da zero a sei anni ma sono già detenuti: i bambini che vivono in carcere


Nelle carceri italiane ci sono 70 bambini detenuti. Hanno da pochi mesi a sei anni e vivono dietro le sbarre. Condividono la reclusione delle madri, anche se il regime carcerario a cui sono sottoposti è attenuato rispetto al resto della popolazione carceraria.
Il numero dei bambini nei penitenziari è più o meno sempre costante negli anni. Non influiscono i vari provvedimenti di legge: dal 1975 (la legge 354) a oggi (la legge 62 del 2011) ci sono stati cinque interventi legislativi. La legge (26 luglio 1975, n° 354) sull’ordinamento penitenziario ancora in vigore consente alle madri detenute di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, prevedendo l’inserimento di specialisti (ostetriche, ginecologi e pediatri) negli istituti penitenziari allo scopo di tutelare la salute psico-fisica dei bambini e delle loro madri, istituendo appositi asili-nido presso le strutture penitenziarie. Nel 2011 (legge n 62) è stato poi innalzato da 3 a 6 anni il limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le proprie madri.

L’ultimo dato rispetto alla presenza di bambini conviventi con le proprie madri detenute è di marzo 2018 e mostra un aumento del dato rispetto all’anno precedente: se a fine marzo 2018 erano 70 i bambini conviventi con 58 madri detenute, l’anno precedente erano 50. Non tutti i bambini, inoltre, risiedono assieme alle rispettive madri in Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). “Su 70 bambini in carcere al 31 marzo – denuncia l’associazione Antigone -, in Icam ve ne sono dunque 41. Di questi, 20 sono figli di detenute straniere. Gli altri 29 bambini sono allocati in sezioni ordinarie. Di questi, 16 sono figli di detenute straniere”.
L’istituto penitenziario che reclude il maggior numero di bambini si trova a Roma ed è il Rebibbia femminile «Germana Stefanini», uno dei più attrezzati e meglio tenuti. Ci vivono quindici bambini, quasi tutti sotto i tre anni di età. Ma prima della sentenza Torreggiani (la decisione con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilì che «il prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana») se ne contavano ventuno. La maggior parte delle mamme sono Rom ma troviamo anche un’italiana.  La prevalenza Rom si spiega con l’alta percentuale di recidiva che impedisce loro di accedere alle pene alternative.

Una situazione molto complessa perché mette il legislatore nella difficoltà di contemperare tre diverse necessità: garantire l’espiazione della pena, tutelare i diritti del bambino così come il rapporto che deve esserci tra una madre e il figlio poco più che neonato. Cosa, quest’ultima, che fa escludere a priori l’ipotesi di separare il figlio dalla madre al momento dell’ingresso in carcere.

Non sono pochi i problemi legati alla crescita del bambino in un ambiente carcerario: ambiente; alterazione del rapporto affettivo madre-bambino; rapporto simbiotico con la madre. Riguardo al primo punto, la vita dei piccoli all’interno del carcere scorre in modo anomalo, cadenzata da rigide regole: ora del pasto, del sonno, dell’uscita all’aria della madre, del colloquio con i famigliari, della passeggiata con i volontari. Riguardo l’alterazione del rapporto affettivo madre-bambino, si può osservare che il sovraffollamento, il contatto forzato tra etnie e culture diverse, le regole del carcere, creano situazioni che si ripercuotono, inevitabilmente, nel rapporto madre-figlio. Infine, la madre appare l’unica figura rassicurante e di rifermento a tal punto che quando il bambino, compiuto il terzo anno di età, viene allontanato ed affidato ad istituti o familiari,  madre e figlio vivono un trauma: la donna si attacca morbosamente al suo piccolo vedendolo come unico scopo di vita e come sostegno morale per vincere la solitudine e la desolazione del carcere e il bambino perde improvvisamente quell’unico punto di riferimento che è stata la madre per tre anni e si sente perso ed abbandonato.

Il 21 marzo 2014 è stata firmata, per la prima volta in Europa, la Carta dei figli dei genitori detenuti che «riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto del medesimo alla genitorialità». La Carta, il cui rinnovo risale al 6 settembre 2016, è un documento unico in Europa che impegna il sistema penitenziario del nostro Paese a confrontarsi con la presenza quotidiana del bambino in carcere, se pure periodica, e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta. Soprattutto, il documento istituisce un Tavolo permanente (Art. 9) composto dai rappresentanti del Ministero della Giustizia, dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus, trimestralmente convocato dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, promuovendo la cooperazione tra i soggetti istituzionali e non e favorendo lo scambio delle buone prassi a livello nazionale e internazionale.

Il Protocollo rende i bambini che entrano in carcere visibili, tutelando il loro diritto a mantenere un legame affettivo con il genitore detenuto e cercando di superare le barriere legate al pregiudizio e alla discriminazione all’interno della società. La questione centrale del Protocollo è quella di mettere in evidenza “la priorità del benessere del bambino” (art. 3 della Convenzione Onu).

I bambini in visita in carcere hanno come prima percezione, potenzialmente traumatica, il farli sentire come invisibili, invece di gestire la loro presenza con procedure che li rispettino totalmente. 

Il carcere pur essendo un luogo che i bambini sentono estraneo, minaccioso e potenzialmente traumatico è un luogo che devono necessariamente frequentare per mantenere il legame con il proprio genitore, un legame fondamentale per la loro crescita e per la loro struttura psico-affettiva. Un legame che si fonda sugli aspetti affettivi della relazione che rimangono intatti e non sono legati al reato commesso dal genitore ed alla rispettiva colpa.  Inoltre, la separazione dal genitore è un’esperienza importante che fa parte della crescita di ogni individuo per acquisire autonomia, ma se questa separazione, dal genitore recluso, diventa una rottura improvvisa e non accompagnata da parole che la spieghino, allora produce una separazione traumatica che impedisce al normale processo di crescita uno sviluppo equilibrato.
Il sistema penitenziario deve, quindi, rispondere alla necessità di accogliere adeguatamente questi minori attivando interventi di protezione e di prevenzione sociale rispettando le raccomandazioni della Convenzione ONU dell’Infanzia e dell’Adolescenza, in particolare gli artt. 3, 9 e 12 e la recente Carta dei figli di genitori detenuti – Protocollo d’intesa del 21 marzo 2014.

di Valentina Adobati