«Zio ma a te piace fare questo mestiere ?» chiede una bambina.
Le rispondono: «Quale mestiere? No, a zì, io sono una brava persona, io…» La bambina ha 8 anni e siede al tavolo dove si confezionano le palline di cocaina pronte per lo smercio. Insieme alla madre, al padre, ai parenti.
Lo spaccato che emerge dalla conversazione intercettata dalla Compagnia Napoli centro dei carabinieri, agli ordini del capitano Michele Centola, è incredibile: bambini come spacciatori o operai della droga.
È emerso anche questo nell’indagine dei carabinieri di Napoli sul clan Elia, roccaforte nel rione del Pallonetto a Santa Lucia, che ha portato il gip partenopeo all’arresto di 45
persone legate al clan, scoperchiando una vera industria criminosa capace di guadagnare più di cinquemila euro al giorno. In quest’occasione è venuta alla luce la catena di montaggio che c’è dietro il confezionamento di droga. La camorra utilizzava bambini e donne per impacchettare dosi di cocaina e per portarla ai diversi acquirenti. Una scoperta terribile, se si considera la giovane età dei bimbi e i rischi in cui potevano imbattersi, maneggiando una sostanza tanto pericolosa.
Ingranaggi primari della cosca si sono rivelate 17 donne e, soprattutto, molti bambini di età inferiore ai 14 anni, dunque non imputabili da alcuna legge italiana. A loro, la cosca aveva affidato il compito di confezionare le partite di droga da smerciare (le dita piccole e veloci di una bimba di otto anni sembrano fatte apposta per confezionare la cocaina) e perfino di spacciare direttamente nelle strade.
Uno dei punti di svolta dell’indagine è stata un’intercettazione che ha svelato l’intenso sfruttamento minorile nelle operazioni di narcotraffico: Adriana Bianchi, moglie del boss, parlava al telefono con il proprio figlio (13 anni) chiedendo conto della situazione della piazza di spaccio gestita dal ragazzo stesso.
Il lavoro dei carabinieri ha poi completato la struttura dell’apparato malavitoso, con acquisti di dosi eseguiti in pieno giorno, frotte di clienti abituali (soprattutto tassisti) che conoscono perfettamente luoghi e tempistiche degli scambi e ragazzini che, anziché andare a scuola e stare con i propri coetanei, affidano il proprio futuro alle logiche della malavita.
Ma perché coinvolgere i minori nello spaccio di droga?
Più di trentun anni fa, il 22 settembre 1985, Giancarlo Siani, il giornalista napoletano ucciso dalla camorra, pubblicava su “Il Mattino” il suo ultimo articolo (“Nonna manda il nipote a vendere l’eroina”).
E il soggetto erano proprio loro, i ragazzini utilizzati dalla malavita. Venivano chiamati muschilli, moscerini invisibili, imprendibili e sacrificabili.
“Gli spacciatori li utilizzano per non correre rischi. I muschilli sono agili, si spostano da un quartiere all’altro e, soprattutto, non danno nell’occhio, sfuggono al controllo di polizia e carabinieri. Ma principalmente sono minorenni: anche se trovati con la bustina d’eroina in tasca non sono imputabili. Ed ecco che il meccanismo perverso dello spaccio di droga li coinvolge.“
E per il minore? Lo spaccio è ai suoi occhi un vero e proprio lavoro; il bambino si sente messo alla prova in un gruppo che gli riconosce la capacità di assumersi rischi.
Inoltre, il minore acquisisce uno stato di indipendenza economica.
La malavita organizzata sceglie i bambini non solo perché il minore per la legge italiana non è punibile, ma anche perché il reclutamento dei minori alimenta le organizzazioni malavitose e le tiene in vita: essi sono “risorse nuove”. Siani in quell’articolo raccontava i muschilli, i bambini utilizzati come corrieri della droga.
“Gli spacciatori in calzoncini, i corrieri-baby”. Ricordava gli appelli contro la droga e il degrado, le promesse per recuperare. Le ultime parole scritte da Siani sembrano una sentenza: «Fino ad oggi non è stato realizzato niente».
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di Valentina Adobati