Negli ultimi anni, il nostro ordinamento, in materia penale e non solo, ha prestato sempre maggiore attenzione alla tutela nei confronti del minore. In particolare, preme, in questa sede, analizzare la disciplina dettata dall’articolo 61, comma 1, n. 11-quinquies c.p., in materia di circostanze aggravanti comuni.
La sopracitata disposizione normativa, aggiunta a seguito delle modifiche apportate dalla L. del 15 ottobre 2013, n. 119, stabilisce che aggrava il reato «l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza».
Vi sono stati alcuni interrogativi intorno a questo tema: è d’uopo, infatti, evidenziare che desta qualche perplessità l’espressione «in presenza».
In primo luogo, ci si domanda se sia necessario che il fatto venga commesso davanti agli occhi del minore o se sia sufficiente che quest’ultimo ne abbia percezione. Quindi, in primis, bisogna chiarire se il minore debba essere materialmente presente al fatto o se, invece, la circostanza aggravante in oggetto possa essere applicata anche nelle ipotesi in cui il minore abbia la consapevolezza dell’illecito, pur non avendovi assistito. Una risposta a questo quesito è stata, di recente, data dalla Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, con la sentenza del 14 marzo 2017, n. 12328, la quale, dopo aver analizzato la vicenda a cui è stato esposto il minore -cioè un omicidio ad opera del padre di questi, cagionato mediante l’esplosione a distanza ravvicinata di tre colpi di arma da fuoco diretti al torace della vittima, madre del minore medesimo- ha chiarito che «per ritenere sussistente la circostanza aggravante in discorso è sufficiente che il minore percepisca il reato, non essendo richiesto che lo stesso sia commesso davanti ai suoi occhi. […] La circostanza aggravante, […] è configurabile tutte le volte che il minore degli anni diciotto percepisca la commissione del reato e anche quando la sua presenza non sia visibile dall’autore il quale, tuttavia, ne abbia la consapevolezza o avrebbe dovuto averla usando l’ordinaria diligenza». Tale orientamento può ritenersi valido, in quanto il minore, pur non comprendendo il significato giuridico del fatto di reato, ben può intuirne la gravità, cogliendo la lesione che l’agente arreca all’altrui diritto.
In secondo luogo, è necessario comprendere da quale momento è possibile ritenere sussistente la consapevolezza del minore in merito a ciò che è avvenuto. Il quesito, in breve, è il seguente: a partire da quale età il minore effettivamente comprende ciò che avviene intorno a lui? Compiendo un’analisi storica è possibile affermare che, già in tempi meno recenti, la capacità di discernimento si riteneva acquisita intorno ai sei anni. Era appunto questa l’età considerata valida, secondo la Chiesa cattolica, per cogliere il significato delle scelte di fede e, secondo il Ministero dell’Istruzione, per poter iniziare gli studi. Compiendo invece una riflessione psicologica, si può affermare che in questo momento il bambino normalmente acquisisce un pensiero e un principio della realtà che lo circonda. Un minore, già dai sette-otto anni osserva i concetti base della vita, che accresce fino al raggiungimento, a partire dai dodici anni, di capacità logico-sensoriali più complesse. Tali conclusioni sono conformi a quelle a cui è pervenuto il Comitato nazionale per la bioetica nei documenti del 1992 su “Informazione e consenso all’atto medico” e del 1994 su “Bioetica con l’infanzia”, in materia di consenso di atti e operazioni mediche, dove si evidenzia che l’età adatta alla comprensione di tali concetti è collocabile fra i sette e i dodici anni[1]. Di conseguenza il minore, che è in grado di capire i rischi derivanti da operazioni mediche, sarà anche in grado di capire un accadimento meritevole di sanzione[2]. L’età del minore è stata oggetto di analisi anche da parte della Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, che con la sentenza del 18 ottobre 2017, n. 55833, ha affermato che «costituisce approdo ormai consolidato della scienza psicologica che anche bambini molto piccoli, persino i feti ancora nel grembo materno, siano in grado di percepire quanto avvenga nell’ambiente in cui si sviluppano e, dunque, di comprendere e di assorbire gli avvenimenti violenti che avvengano intorno a sé, in particolare le violenze subite dalla madre, con ferite psicologiche indelebili ed inevitabili riverberi negativi per lo sviluppo della loro personalità ». Pertanto, i Giudici di legittimità, sembrano affermare che, ai fini dell’applicabilità della circostanza aggravante in esame, non è necessario che il minore abbia acquisito la capacità naturale. Conclude la Corte, destituendo l’opinione espressa dall’avvocato della difesa[3], sostenendo che «il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nei confronti dei figli, qualora la condotta di colui che compia atti di violenza fisica sia diretta contro la sola convivente, ma – appunto – in presenza dei minori, integrando la c.d. “violenza assistita” o indiretta»; In questo testo, inoltre, si richiama anche l’orientamento della giurisprudenza civile, secondo il quale «i maltrattamenti commessi inflitti da un coniuge all’altro in presenza dei figli possono condurre alla dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, a norma dell’articolo 330 c.c., per le inevitabili ripercussioni negative sull’equilibrio fisiopsichico della prole e sulla serenità dell’ambiente familiare e poiché, ancora, denotano mancanza di quel minimo di disponibilità affettiva e pedagogica richiesto in chi esercita la potestà parentale». La Corte di Cassazione offre così una risposta, che si ritiene essere estremamente condivisibile: «orbene, ritiene il Collegio che, ai fini della integrazione della circostanza aggravante, sia sufficiente che il minore sia esposto alla percezione degli atti di violenza e che non sia in alcun modo richiesto che questi sia anche in grado, per il grado di maturità psicofisica conseguito, di realizzare, di comprendere la portata offensiva o lesiva degli atti commessi in sua presenza. Tale conclusione esegetica discende dalla piana lettura della disposizione, interpretata secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse – in conformità all’articolo 12 preleggi -, là dove prevede esclusivamente che l’azione si svolga “in presenza” del minore e non richiede, in nessuna parte, che questi abbia raggiunto un’età o un grado di sviluppo intellettivo o psicologico tale da poter apprezzare la natura violenta o offensiva dell’agire che venga perpetrato intorno a sé. […] La lettura privilegiata si appalesa, d’altronde, coerente con la ratio dell’elemento circostanziale, che si correla all’esigenza di elevare la soglia di protezione di soggetti i quali, a cagione dell’incompletezza del loro sviluppo psico-fisico, risultano più vulnerabili e, dunque, più sensibili ed esposti ai riverberi negativi degli agiti aggressivi che siano realizzati in loro presenza».
[1] Per ulteriori approfondimenti, cfr. Pietramala T., La Convenzione di New York e la capacità di discernimento del minore. Orientamenti della giurisprudenza italiana, consultabile on-line alla pagina www.filodiritto.com.
[2] Seppur nella forma embrionale di “azione cattiva” o “che fa paura”, senza apprezzarne le più complesse sfaccettature giuridiche.
[3] La difesa aveva, infatti, proposto ricorso per «violazione di legge penale in relazione […] alla ritenuta integrazione della circostanza aggravante prevista dall’articolo 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies, evidenziando che il minore, all’epoca dell’unico episodio in rilievo, aveva pochissimi mesi ed era totalmente incapace di comprendere cosa stesse accadendo, non potendo l’aggravante in parola correlarsi alla mera presenza fisica dell’infante al momento del fatto».
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di Giulia Rossitto
